Cronaca
Il nido, indispensabile per le mamme che lavorano. Ne siamo sicure?

Quando si parla di mamme lavoratrici si parla subito di asili nido, di quanto siano costosi, di quanto siano lunghe le graduatorie per accedervi e così via. Naturalmente parlare di nido significa parlare anche di paura dell’abbandono, sensi di colpa della mamma, inserimento e altre complicazioni emotive sia per la mamma che per il piccolo.
Personalmente, ho dovuto lasciare la mia piccola al nido quando aveva poco più di un anno. Non ci sono infatti nonni o altri parenti a darmi una mano e la nostra situazione economica non ci consentiva di rinunciare ad un secondo stipendio. E’ poi innegabile che io avessi bisogno, isolata com’ero, di riprendere i contatti con una realtà fatta di adulti e di gratificazione professionale.
A distanza di tempo, però, devo ammettere che il nido non mi piace. Non come struttura: ho avuto delle maestre a dir poco meravigliose nei confronti miei e di mia figlia. Non mi piace l’idea che un bimbo così piccolo debba allontanarsi dalla mamma per diverse ore. C’è forse un’alternativa, direte voi?
Secondo me, ormai si parla solo di aumentare i posti al nido perché è la soluzione più facile. E’ meno facile organizzare il compito di una neo mamma per obiettivi da raggiungere piuttosto che in ore passate in ufficio; è meno economico realizzare nidi aziendali come anche investire sulle tagesmutter (che nella mia città costano più del nido).
Sembra che il governo, nei panni della Carfagna, si stia muovendo almeno per aumentare gli aiuti alle mamme che lavorano. Temo però, che sia ancora lontano il tempo in cui verrà considerato un diritto inalienabile della donna quello di poter scegliere come gestire il proprio lavoro durante la gravidanza e nei due anni dopo il parto.
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