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Educazione

Mamme da legare: è giusto che i bambini capiscano e parlino il dialetto?

Quando ero bambina, molti genitori rimproveravano i figli se li sentivano parlare in dialetto. “Che ti mando a fare, a scuola?”.

A comportarsi così erano soprattutto due tipi di genitori: quelli che non erano riusciti a finire il percorso di studi e gli snob, spesso con una laurea (soldi buttati, in questo caso). Se la prima categoria rientra a pieno titolo nelle mie simpatie (ti do quello che non ho avuto, le opportunità che mi sono mancate), la seconda categoria proprio non la mando giù. Innanzitutto perché, se millantate una cultura, dovreste sapere che i nostri “dialetti” sono chiamati così impropriamente: sono lingue, in tutto e per tutto. Il nostro italiano standard non sarebbe mai esistito senza la Scuola siciliana prima e il fiorentino trecentesco poi. Arrendiamoci: quella segnata come lingua madre sui nostri curriculum è una lingua convenzionale. Data la cultura letteraria, musicale e perfino cinematografica e culinaria che ho respirato sin da bambina, la mia lingua madre dovrebbe essere il napoletano. Lo dice anche l’UNESCO.

In secondo luogo, noi attribuiamo ai nostri “dialetti” una qualità inferiore rispetto all’italiano standard. Eppure, e parlo per il napoletano perché è la lingua che conosco, è la lingua di Viviani, di Di Giacomo, di Caruso e della vivace corte borbonica. È la lingua della pastiera e del casatiello. Così come il romanesco è la lingua di Trilussa e di Tosti, e il milanese è la lingua di Porta e Tessa. Dove siamo destinati ad andare, se non conosciamo la nostra storia e la nostra cultura, che è raggiungibile soprattutto tramite la lingua?

Io vivo al nord, e per me la questione si fa delicata: avrò una figlia che parlerà con un accento non nostro. Penso che sarà abbastanza scioccante, all’inizio. Come se non bastasse, qui ci sono un bel po’ di terroni: il terrone è colui che, poco consapevole delle proprie radici e con un senso d’inferiorità ascrivibile alla scarsa cultura, tenta di imitare disperatamente l’accento del posto, parla male del sud ma, se abbassa un attimo la guardia e gli chiedi “come stai?”, ti risponde “bbbene, grazie”, arrossendo all’improvviso perché si è inavvertitamente tradito. Maledette “b”.

Se mia figlia ha il privilegio di godere di due diverse culture, di due identità, io non posso e non voglio frustrarla: è una ricchezza che non voglio sottrarle. Dovrà saper rispondere con serenità a chi le ricorda l’origine dei suoi genitori. Dovrà prendere il meglio dalla Romagna e dalla Campania.

Insegnare la storia della propria terra, passando attraverso la lingua, è l’unico vero modo che abbiamo per insegnare l’amore e il rispetto verso questa penisola così eterogenea, così diversa al suo interno. Abbiamo fatto l’Italia, facciamo i napoletani. E i palermitani. E i milanesi e i torinesi, i materani e gli aquilani.

Foto | Flickr

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