
These are Homs children. It is for those Syrians have vowed to continue the revolution & never stop until Assad is brought to justice.
Non posso farmi un torto dicendo che prima non mi colpissero, le foto di bambini in teatri di guerra. Ma, da quando ho avuto mia figlia, qualcosa è cambiato. È inevitabile: a ogni viso sovrappongo il suo, ogni sofferenza la immagino inferta a lei.
Non ho condiviso l’immagine di Aylan Kurdi sui social network: nascita e morte sono momenti che appartengono solo a chi li vive. La stessa famiglia del bambino ha chiesto che la foto smettesse di girare. Eppure, posso capire le motivazioni di alcuni: dobbiamo vedere cosa accade, e una foto è più loquace di mille parole e statistiche. Ed è indubbio che, quello scatto, abbia smosso più di una coscienza dal suo torpore.[related permalink=”http://www.polisblog.it/post/357224/quella-foto-del-bambino-che-sconvolge-leuropa-e-lemergenza”][/related]
Eppure, egoisticamente, non ho voluto imporla ai miei contatti, che so già essere sensibili al problema. La scorsa estate, con le operazioni israeliane a Gaza, le foto dei 500 e più bambini morti mi hanno letteralmente perseguitata, senza però aggiungere nulla a ciò che già pensavo: se si perde la vita anche di un solo bambino, c’è qualcosa di disumano e atroce.
E dopo aver visto una di queste foto, la reazione è sempre la stessa: stringo mia figlia scacciando il pensiero di cosa siano stati gli ultimi momenti di quei bambini, e cerco di pensare a loro vivi, mentre giocavano. Un pensiero che fa ancora più male.
Foto | Flickr