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La piada, la poesia di Giovanni Pascoli dedicata alla piadina romagnola

La piada di Giovanni Pascoli è un poetto che il poeta dedica alla mitica piadina romagnola.

piadina romagnola

Alzi la mano chi ama la piadina romagnola. Scommettiamo che molte mani sono alte e puntano verso il cielo in questo momento. Il piatto tipico della Riviera romagnola è infatti amato da tutti quanti. Anche perché possiamo facilmente farcirlo come meglio ci aggrada. E sarà per questo motivo che piace tanto anche ai più piccoli di casa, che di solito prediligono sapori più delicati e neutri. Ma lo sapevate che anche un grande poeta come Giovanni Pascoli aveva celebrato la piadina romagnola?

La Piada è una poesia di Giovanni Pascoli, originario di San Mauro di Romagna. È stata scritta a inizio Novecento e parla anche del tipico piatto romagnolo esportato ormai nel resto d’Italia e del mondo. Ci sono delle indicazioni del poeta, nato nel 1855, su come si prepara la piadina e su cosa rappresenta questa sorta di pane per tutti i romagnoli.

Pronti a leggerla con i vostri figli?

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Il vento come un mostro ebbro mugliare

udii notturno. Errava non veduto

tra i monti, e poi s’urtava al casolare

 

piccolo, ed in un lungo ululo acuto

fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora

più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.

 

L’udii tutta la notte, ed all’aurora,

non più. Dormii. Sognai, su la mattina,

che la pace scendeva a chi lavora.

 

Or vedo: scende. Scende: era divina

l’anima. Il cielo tutto a terra cade

col bianco polverìo d’una rovina.

 

Non un’orma. Vanite anche le strade.

La terra è tutto un solo mare a onde

bianche, di porche ov’erano le biade.

 

Resta il mio casolare unico, donde

esploro in vano. Non c’è più nessuno.

E solo a me che chiamo, ecco risponde

 

il pigolìo d’un passero digiuno.

 

Sul liscio faggio danzi corra voli,

Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:

stacciamo il pane che si fa da soli!

 

Voli lo staccio e treppichi giocondo,

vaporando il suo bianco alito fino,

che si depone sul tuo capo biondo.

 

O lieve staccio, io t’amo. Il tuo destino

somiglia al mio: tener la crusca; il fiore,

spargerlo puro per il tuo cammino.

 

E fai codesto con un tuo rumore

lieto, in cadenza: semplice, ma bello

per l’orecchio del pio lavoratore.

 

Ma triste, sotto mezzodì, per quello

del viandante, che rasenta i triti

limitari del lungo paesello:

 

ch’ode un danzar segreto, ode tra i diti

di donna sola, in ogni casa, andare

te, casalingo cembalo, che inviti

 

lo sciame errante al tacito alveare.

 

Taci, querulo passero: t’invito.

Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:

taci: or ora imbandisco il mio convito.

 

Il poco è molto a chi non ha che il poco:

io sull’aròla pongo, oltre i sarmenti,

i gambi del granturco, abili al fuoco.

 

Io li riposi già per ciò. Ma lenti

sono alla fiamma: e i canapugli spargo

che la maciulla gramolò tra i denti.

 

Nulla gettai di quello che non largo

mi rese il campo: la mia man raccoglie

anche i fuscelli per il mio letargo.

 

Serbo per il mio verno anche le foglie

aride. Del granturco, ecco via via

mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.

 

Ciò che secca e che cade e che s’oblia,

io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore

si stacca triste e che poi fa che sia

 

morbido il sonno, il giorno che si muore.

 

Il mio povero mucchio arde e già brilla:

pian piano appoggio sopra due mattoni

il nero testo di porosa argilla.

 

Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni

il sale; dono di te, Dio; ma pensa!

l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.

 

Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa

nella bilancia tremula: le lande

tu ne condisci, e manca sulla mensa.

 

Ma tu, Maria, con le tue mani blande

domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;

ed ecco è liscia come un foglio, e grande

 

come la luna; e sulle aperte mani

tu me l’arrechi, e me l’adagi molle

sul testo caldo, e quindi t’allontani.

 

Io, la giro, e le attizzo con le molle

il fuoco sotto, fin che stride invasa

dal calor mite, e si rigonfia in bolle:

 

e l’odore del pane empie la casa.

 

Chi picchia all’uscio? Tu forse Aasvero,

che ancor cammini per la terra vana,

arida foglia per un cimitero?

 

Chi picchia all’uscio?… E fioca una campana

suona… Chi suona? Forse un vecchio prete,

restato a guardia della tomba umana?

 

È solo; e ancora a mezzodì ripete

l’Angelus, ed a rincasare invita,

morti, voi, che sotterra ora mietete.

 

Socchiudo l’uscio. — Antica ombra smarrita,

che in cerca erri del corpo; ultima foglia,

che stridi ancora dove fu la vita;

 

qual vento t’ha portato alla mia soglia,

vecchio ramingo, ultima foglia morta

d’albero immenso che non più germoglia?

 

Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta

necessità. Sei vivo: soffri! Vivo

sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta:

 

entra, fratello; chè ancor io… sì, vivo. —

 

Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco

l’azimo antico degli eroi, che cupi

sedeano all’ombra della nave in secco

 

(si levarono grandi sulle rupi

l’aquile; e nella macchia era tra i rovi

un inquïeto guaiolar di lupi…):

 

il pane della povertà, che trovi

tu, reduce aratore, esca veloce,

che sol s’intrise all’apparir dei bovi:

 

il pane dell’umanità, che cuoce

in mezzo a tutti, sopra l’ara, e intorno

poi si partisce in forma della croce:

 

il pane della libertà, che il forno

sdegna venale; cui partisci, o padre,

tu, nelle più soavi ore del giorno:

 

ognuno in cerchio mangia le sue quadre;

più, i più grandi, e assai forse nessuno;

o forse n’ebbe più che assai la madre,

cui n’avanza da darne un po’ per uno.

 

 

Azimo santo e povero dei mesti

agricoltori, il pane del passaggio

tu sei, che s’accompagna all’erbe agresti;

 

il pane, che, verrà tempo, e nel raggio

del cielo, sulla terra alma, gli umani

lavoreranno nel calendimaggio.

 

Chè porranno quel dì su gli altipiani

le tende, e nel comune attendamento

l’arte ognun ciberà delle sue mani.

 

Ecco il gran fuoco, che s’accende al vento

di primavera. Ma in disparte, gravi,

sulla palma le bianche onde del mento,

 

parlano i vecchi di non so che schiavi

d’altri e di sè: ma sembrano parole

sepolte, dei lontani avi degli avi.

 

Guardano poi la prole della prole

seder concorde, e, con le donne loro

e i loro figli, in terra, sotto il sole,

frangere in pace il pane del lavoro.

” title=”La Piada di Giovanni Pascoli”]

Foto di Shutterbug75 da Pixabay

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